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I Due Modi di Vivere il Qui e Ora, di Federico Bellini

La natura, maestosamente distaccata, vive l’attimo presente della sua essenza. Tutte le esistenze, gli oggetti, in una parola i fenomeni, sono manifestazioni momentanee, presenze effimere che durano soltanto per un singolo momento, dato che svaniscono non appena sono comparsi, per essere seguiti da un’altra esistenza nel momento successivo. Qualunque fenomeno abbia una causa deve perire, perché contiene in se stessa l’implicita necessità della dissoluzione, insita nella Materia generata dall’Illusione (Maya). Una montagna o una semplice collina, seppur con la loro impercettibile erosione, resteranno per secoli punto di riferimento per le generazioni a venire, così come esistono alberi secolari, dove coppie si sono rinnovate il loro amore e i loro bambini vi sono cresciuti, che diventati poi adulti, vi hanno persino portato i loro figli a giocare. Addirittura, sempre nella natura, esistono forme di vita così longeve, come ad esempio le tartarughe delle Galapagos, ancora oggi viventi e che hanno conosciuto Charles Darwin ben 170 anni fa! Nel mondo, per quanto ci crediate o no, non c’è né permanenza né identità, perché non vi è nulla di stabile, duraturo e di permanente. Tutto cambia istante per istante, come il corso d’una cascata che, benché ci appaia sempre uguale, è tuttavia in continuo cambiamento, poiché l’acqua vi si rinnova incessantemente e non una goccia resta al suo posto. Qualsiasi cosa accada, la natura non si sofferma a pensare, ma agisce di conseguenza, arrivando persino nei casi più estremi a trovare soluzioni inaspettate; perché la natura, se è costretta a distruggere, si evolve, l’uomo se invece distrugge, anche con il solo scopo di un piacere, è destinato a morire. La natura, ancorata fortemente al passato e proiettata con il suo istinto di sopravvivenza verso il futuro, vive incurante l’eterno presente, il qui e ora, in una sorta di ascetica impermanenza, dove l’atto stesso della vita diventa una catarsi, una nemesi unica ed inscindibile attraverso la quale la totalità dell’essere, si manifesta attraverso il Sé Spirituale che permea ogni cosa.

L’impermanenza (deriva da Anitya, termine sanscrito) indica uno dei tre aspetti fondamentali dell’esistenza nella dottrina canonica del buddhismo: l’impermanenza o cambiamento o divenire; la sofferenza o l’essere insoddisfatti, connaturata alle cose mondane; il non sé o l’insostanzialità della personalità o l’inesistenza di un nucleo permanente o separato. Insieme queste tre caratteristiche fondamentali dell’esistenza, della vita di ogni “essere senziente”, formano la base causale della dottrina delle Quattro Nobili Verità, e quindi di tutta la ricerca spirituale buddhista. Impermanenza significa che tutti i fenomeni (cose, esseri, sensazioni, emozioni, pensieri, situazioni) sono soggetti al nascere e morire, tuttavia, senza di essa, la vita non sarebbe possibile: un seme di grano non potrebbe crescere, un bambino non potrebbe diventare un uomo, invecchiare, ammalarsi e morire. Anche la nostra personalità, il nostro Io, la nostra individualità non è un fatto reale ed ultimo, bensì solo un nome che copre una moltitudine (un flusso) di elementi psicofisici interconnessi e in relazione tra loro: ognuno di noi, in sostanza, è solo una combinazione di forze e energie psico-fisiche in continuo mutamento. I sassi, le piante, neppure gli animali che per molti versi sono gli esseri più vicini a noi, sembrano domandarsi “Io, chi sono?”. Mentre una mucca che mangia l’erba non si arrovella nel comprendere i misteri del creato, ma essa stessa fa parte di quel mistero che è il creato, l’uomo si interroga incessantemente sulla natura del suo essere, rimanendo nell’incertezza e nell’angoscia di scoprire la risposta. Il problema risiede dall’esperienza. Se l’uomo pensa che tutto ciò che vede è fuori di lui, distinto da Sé, come qualcosa da cui si sente separato, si accorge di essere misero, isolato, vulnerabile, schiacciato dal peso del mondo, resterà vittima di due entità distinte (Dualità), colui che vede e ciò che viene visto, colui che conosce e ciò che viene conosciuto, radicando in essa la sua perpetua insoddisfazione e con la essa la tristezza. Se l’uomo, altresì, pensa che il mondo esiste già quando lui lo vede, pensando che il mondo è messo insieme in maniera intelligente e che non può esserne l’artefice, si mette alla ricerca di un Creatore, di un dio, anch’egli fuori dal Sé, capace di aver fatto l’intero Universo e… l’uomo stesso! Ed è in quest’ultimo caso che nascono le religioni, dove l’uomo finisce sempre per restare con una limitata visione di sé, perché attraverso di essa, percepisce che l’Io è fuori dall’Io, dove l’uomo crede che la realtà si trova nella distinzione tra ciò che percepisce e conosce. Ma non appena l’uomo scopre che lui stesso è la totalità, che non c’è Dualità, che non vi è distinzione tra Creatore e Creato, tra chi vede e ciò che è visto (l’osservatore), fra se stesso e dio, è li che trova la soluzione, perché capire questo è la vera liberazione: liberazione dall’illusione di essere un esistenza individuale, a sé stante, mentre in realtà siamo in perfetta unità con il Tutto.

Ma come può l’uomo fare questo salto di coscienza? Quando si nasce, si è ignorante del Sé, nel corso della vita accumuliamo tanta conoscenza, ma quella non ci aiuta a capire chi siamo perché è conoscenza che ci viene dai sensi, dalle deduzioni fatte in base alla percezione proveniente dai nostri cinque sensi. Tutta la conoscenza scientifica è derivata dai sensi ed essendo ogni volta riportata e incrementata con le nuove scoperte, risulta essere sempre di seconda mano. La conoscenza interiore, invece, risulta essere di prima mano, quando alla domanda “Io, chi sono?” alla fine rispondi che Tu sei Dio, tu sei il Creatore dell’intero Universo, Tu sei Quello, dove il tu non è ovviamente la personalità, l’Io finto a cui siamo attaccati, nato un certo giorno, cresciuto nel tal posto, l’Io illusorio attaccato alle tante cose, alle esperienze, le passioni, ma all’altro Io, il Sé che è dentro ognuno di noi, la coscienza pura, il Sé che, non esseno mai nato, non può morire, perché arrivare a riconoscere la sua natura “divina” è il vero fine della vita umana. Per questo motivo diventa fondamentale vivere il presente, perché ci insegna a guardare le cose e le situazioni così come sono, senza sviluppare sentimenti di attaccamento o di avversione. Noi soffriamo, non perché l’impermanenza sia di per sé sofferenza, ma perché non riusciamo ad accettare che le cose cambino. Comprendere l’impermanenza porta ad accettare il presente, il “Qui ed Ora” senza dar spazio e proiezioni al futuro e senza dover ogni volta incrementare i ricordi del passato; dato che il segreto di questa legge universale è sempre il momento presente, accettare il presente significa accettare la vita. Per questo motivo è di fondamentale importanza la Meditazione, e Meditare, in fondo, significa prendere coscienza di Sé. Non è sempre facile, perché la Mente è per sua natura inquieta, a volta turbolenta, si distrae, e il cercare di non farla pensare è “come voler prendere il vento con le mani per farlo andare là dove si vuole”, come dicono le Upanishad. Eppure la capacità di concentrarsi, di riportare la Mente a se stessa può diventare una questione di volontà, di forza, di carattere, qualcosa in cui è necessario investire ogni sforzo, perché controllare la propria Mente significa, alla fine, controllare la propria vita. La Mente è all’origine di tutti problemi e i mali dell’Uomo, ma è anche la sede delle sue soluzioni, è uno strumento misterioso sul quale camminiamo ogni giorno senza renderci conto di quanto abbia valore intrinseco, si tratta semplicemente di entrarne in possesso, di dominarla esercitandoci a fare tutto quel che facciamo con consapevolezza, invece di farlo distrattamente, soggiogati dal volere effimero e mondano della nostra illusoria quotidianità.

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