Il Portogallo e le sue difficoltà.
«Pigs», porci, li chiamano i media
anglosassoni dalle iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. O
anche Piigs, aggiungendoci l’Italia. E se la maggior parte dei Paesi
che tanto turbano i sonni degli investitori in realtà non sta affatto
peggio della Gran Bretagna, vale il vecchio detto «Quod licet Iovi,
non licet bovi»: c’è chi può… e c’è chi, come il Portogallo, si vede
precipitare da un giorno all’altro nel baratro della diffidenza.
Di
essere in questo baratro un governo si rende conto quando gli
investitori si fanno pregare a sottoscrivere prestiti e chiedono
tassi d’interesse sensibilmente più alti di quelli pagati dalla
Germania (che è il benchmark). Il Portogallo è stato promosso ad un
ruolo di centro dell’attenzione degli operatori del mondo intero,
scrive Nuno Serafim, analista di Ig Markets, «pelas piores razões», per
i peggiori motivi. Il tasso sui titoli di Stato decennali è arrivato a
4,72%. L’indicatore più sintetico di questa malevola attenzione è però
il livello dei credit default swaps, che sono intorno a 160 punti base
(400 per la Grecia, il cui default è considerato probabile) dopo aver fatto registrare un massimo di 230 e oltre.
Ma
il Portogallo non è come la Grecia. Le sue finanze non sono mai state
altrettanto disinvolte e le sue statistiche mai altrettanto menzognere.
Negli scorsi due decenni vi sono state numerose privatizzazioni e
liberalizzazioni, inclusi i settori della finanza e delle telecom. Il
Paese è membro dell’unione monetaria dal 1998 e dal 2002 vi circolano
le monete e le banconote in euro. La crescita economica si è mantenuta
al di sopra della media dell’Unione europea per tutti gli anni Novanta
anche se ha rallentato nel nuovo millennio, facendo segnare nei tre
ultimi anni tassi reali di aumento del PIL dell’1,9, 0 e -3,3%. Il
livello attuale del PIL pro capite è pari ai due terzi della media
dell’Unione.
Il problema, casomai, è che come in Grecia le misure
di austerità stanno incontrando l’opposizione attiva di vasti ceti
danneggiati dal tiro di cinghia. Per di più, il governo socialista è
un governo di minoranza, dunque in essenza debole e provvisorio.
Proprio negli ultimi giorni il Parlamento ha passato una legge sulla
finanza regionale che devia dalla «retta via» del riequilibrio
fiscale. Un brutto segnale, ha commentato il ministro delle Finanze
Fernando Teixeira dos Santos, che ha subito dichiarato che si darà da
fare perché la legge non venga applicata. Ma la posizione del
Portogallo, ha aggiunto, in realtà è gestibile. «I nostri
fondamentali mi sembrano buoni», ha detto: «Abbiamo già implementato
importanti riforme strutturali nella sicurezza sociale,
nell’amministrazione pubblica – un bel po’ di importanti cambiamenti
per modernizzare il Paese, innalzare la competitività e migliorare la
qualificazione delle nostre risorse umane».
Restano però le cifre
che sanguinano: un deficit pubblico al 9,3% e debito dello Stato al
76,6% del Prodotto interno lordo. Un recente
studio effettuato dal colosso bancario Unicredit ha trovato che il
Portogallo «ha forti squilibri fiscali e di bilancia commerciale.
Inoltre, il suo approccio per riportare il deficit fiscale in
carreggiata è troppo tiepido, tenuto anche conto che nel 2010 le
previsioni sono ancora di un calo del PIL (-1%)». Di più: il governo
di Lisbona – scrive sempre Unicredit – ha una maggioranza labile, «e
non sembra in grado di fare le riforme necessarie».
Purtroppo,
questa sembra essere anche l’opinione dei signori della finanza, che
nelle ultime settimane stanno concentrando le loro zampate contro
l’euro nella persuasione che i Paesi minori siano davvero nei guai –
e che neppure in via officiosa i Paesi più forti intendano farsi
garanti dei loro debiti. Che i debitori debbano assoggettarsi a
qualche anno di vacche magre è ormai incontestabile, ma nell’Unione
nessun Paese vuole apparire lo Shylock di turno che obbliga i piccoli a
vivere male. E se lo facesse l’FMI, che in questo campo è del tutto
spudorato e alle manifestazioni di protesta non fa neanche più caso,
sarebbe per l’Europa un duplice smacco: mostrerebbe che l’unione
monetaria dell’euro non basta a sé stessa e darebbe voce in capitolo
agli Stati Uniti, che del Fondo sono i veri burattinai.
Paolo Brera.
Foto : Fernando Teixeira dos Santos.