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Le problematiche esistenziali nei dipinti di Fabio Esposito

Il versatile artista partenopeo sarà in mostra in una personale che mostrerà 15 anni di pittura, a Jesi (AN) dal 2 al 24 giugno 2012.

Poi arriva l’Espressionismo vero e proprio, quello che principia con gli inizi del XX secolo, preceduto da una specie di antefatto in Francia rappresentato dal movimento Fauve (Henri Matisse, Maurice de Vlaminck, André Derain, Kees Van Dongen e così via) che espone per la prima volta al Salon d’Automne a Parigi nel 1905, seguito in Germania (sua culla naturale) dal Die Brücke (“Il Ponte”) che opera prevalentemente a Dresda dal 1905 e a Berlino dal 1911, quando il grande storico dell’arte Wilhelm Worringer lo battezza col nome di Espressionismo nel celebre saggio “Der Sturm”, e successivamente dal Blaue Reiter (“Il Cavaliere Azzurro”) a Monaco nel 1912. Al movimento di Dresda e di Berlino aderirono autori come Erich Eckel, Ernst Ludwig Kirchner, Emile Nolde, Karl Schmidt-Rottluff ed altri, mentre a quello di Monaco Vasilij Kandinskij, Franz Marc eccetera. Poi vi furono autori espressionisti importantissimi attivi in tante altre aree geografiche, dagli austriaci Oskar Kokoschka e Egon Schiele ; ai tedeschi George Grosz, Otto Dix, Max Bechmann; ai francesi George Rouault e i già citati componenti della linea fauve; agli italiani Scipione, Mario Mafai, Antonietta Raphaël Mafai, Marino Mazzacurati, Pericle Fazzini ed altri.

Tutte le opere di Esposito inseguono questo desiderio di ricreare l’esistente: egli lo fa a volte aderendo alle morfologie del reale, altre volte modificandole, esasperandole, rattrappendole oppure dilatandole, ingigantendole, alterandone i colori veri (disse una volta Schmidt-Rottluff ad un suo allievo: “Che problema c’è? Se vedi il mare rosso dipingilo di rosso”). Con queste esasperazioni grammaticali e sintattiche, Esposito racconta scene della sua Campania, caratteristiche come “O Presepio” del 1994; racconta episodi di vita raccolti negli spaccati urbani; crea realtà immaginarie proprie della cultura locale (come “Maschera nuda” o “L’abbraccio senza maschera”, entrambi del 1991); dettaglia particolari-simbolo del nostro tempo, delle nostre tecnologie e delle conseguenti nostre moderne volontarie schiavitù (come “L’uomo e il suo computer” del 1994; “Tizia nel carrello” e “Operatrice al computer” del 1996; “La lavatrice di Eva” del 1997; “Vieni è ora di andare” del 1997; “Io vedo, tu tocchi, lei ascolta” del 1998; “Donna, video, donna, video, donna” del 2000; “Cuffia donna, cuffia uomo” e “PC”, entrambi del 2001; “Donna cellulare, uomo cellulare” e “Riposando sul frigo”, del 2004; “Il segno del comando” del 2005); inventa storie o descrive cronache lavorando sulla materia pittorica in modo da incidere segni profondi, esasperare i contorni delle figure (e qui le opere sono tante che vanno dal rispetto del modello naturale ad una libera ricreazione dello stesso dove le regole anatomiche, prospettiche, costruttive sono volutamente violate); realizza quadri delicati in cui scorre più evidente un afflato poetico (“Unione” del 1988; “I suoi sogni volano via” del 1989; “I sogni della nonna del 1991; “Matrimonio di Pulcinella “del 1992; “Sposa di pulcinella” del 1996; “Coppia del 1998”; “Coppia” e Danza notturna a Torre del Greco” del 2000; rasenta l’astratto con “Euterpe ” del 1995 (Euterpe è la musa della musica: e come si potrebbe dipingere realisticamente la musica?) ma anche con “Grido” del 1192; si cimenta egregiamente nei ritratti (“Colonnello anglosassone” del 1995; “Freud” del 1999 e “Ananga” del 2010); ma sogna anche, con il sorriso benevolo della speranza, mediante “Volo notturno” del 2011, una vera e propria favola onirica di delicata qualità poetica. Quasi l’opposto di un dipinto del 1988, intitolato “WC”, in cui la prospettiva espressionista si palesa attraverso la dimensione della registrazione esistenziale volutamente bassa. Ebbene questa tela è lacerata. Non si tratta di un incidente dovuto al trasporto o al montaggio o all’incuria di qualcuno. No, la lacerazione è il segno di una fase problematica della vita dell’autore. Io personalmente ho chiesto che l’opera non venisse restaurata e fosse esposta così com’è, con evidente il segno della ferita che un certo giorno le fu inferta, con rabbia, da persona diversa dall’autore. Perché mi è sembrato, così facendo, di dare senso pieno a quel che si è detto dell’Espressionismo, anche attraverso la registrazione di una traccia fisica di furore esistenziale. Un segno vero, esterno, si è aggiunto a quelli dell’artista. L’arte, non per niente, è composta di segni.

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