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456, la fiction ai tempi della crisi. Intervista a Massimo De Lorenzo

Dallo show di Serena Dandini, il Pater familias più inquietante della tv

di Emanuela Sabbatini
456In “Agrodolce”, fiction di Rai 3 ambientata a Lumera, paese di fantasia della Sicilia, vestiva i panni di Felice Randazzo, il professore goffo e un po’ burbero del liceo Sciascia. In “Boris”, serie tv sui generis, impersonava invece lo sceneggiatore della strampalata fiction televisiva italiana “Gli occhi del cuore”. Oggi lo ritroviamo su La 7 all’interno del programma di Serena Dandini “The show must go off”, con 456, spettacolo firmato da Mattia Torre. Stiamo parlando di Massimo De Lorenzo, il Pater della famiglia più soffocante della tv italiana.
Sì, 456 come i metri quadri di campagna buia e desolante che circondano la casa di questa serrata microcomunità del sud formata da padre, madre e figlio. Ironia e tragedia si mescolano per raccontarci il Vecchio Stivale, con le sue abitudini e le sue universali grettezze. Il desiderio di morte, la paura, la gerarchia patriarcale, l’ignoranza, il diverso come pericoloso, il cibo, la fede, i giovani, l’immobilismo…
Affascinati e insieme sarcasticamente preoccupati da questo inusitato spaccato, abbiamo voluto fare quattro chiacchiere con lui.



456, la fiction ai tempi della crisi. E di crisi ce n’è molta nei vostri sketch…una fotografia desolante dell’Italia di oggi, di certe consuetudini che leghiamo al sud e dell’istituzione famiglia. Dal teatro al piccolo schermo. Come si spiega?
E’ un esperimento. Abbiamo estrapolato i personaggi, le loro nevrosi, i loro rapporti senza raccontare la trama dello spettacolo. Non è una necessità ma il tentativo di raccontare le dinamiche folli di questa famiglia con un linguaggio più sintetico ma non per questo più superficiale. Raccontando anche il loro rapporto con molti temi dell’attualità e il loro strambo modo di interpretarli. Sono contento che non si è cercato per questo di renderlo più comico e l’effetto è spiazzante, rimane quella drammatica cupezza che c’è nello spettacolo teatrale.



Un tratto fondamentale di questo lavoro sta nell’uso di uno pseudo dialetto meridionale. Sembra più un “socioletto”, una lingua parlata da un gruppo con caratteristiche definite, caratterizzato da una situazione condivisa. Eppure non si corre il rischio di una interpretazione banale, e cioè legare la desolazione e l’arretratezza solo al sud?
Non credo, è chiaro che il linguaggio riporta immediatamente ad una realtà meridionale, ma credo che alla fine si possa immaginare questa famiglia in qualsiasi luogo e non solo in Italia … i temi della paura, della chiusura, della sfiducia, dell’attaccamento al cibo come unica valvola di sfogo, delle dinamiche familiari generatrici di odio, violenza… sono tutti temi che potremmo ritrovare ovunque, non solo al sud.

In 456, sei il Pater, quello che in certe parti del sud viene chiamato “Tani” proprio da tanathos, a delineare la potestà di disporre della vita e della morte dei componenti della famiglia. Quanto Pater c’è in quest’Italia, non solo nel microcosmo familiare, ma proprio nelle figure di potere?
Tantissimo. Qualcuno diceva che siamo un popolo che storicamente ha bisogno di un duce, di qualcuno che ci dica cosa fare, incapaci di assumerci la responsabilità delle nostre scelte. In una realtà come questa il Pater è una figura che dilaga, in ogni ambiente. Sarebbe bello cominciare ad essere Pater di noi stessi…

La famiglia è morte”, dice cinicamente Ginesio. E spera che muoiano tutti i suoi componenti, lui compreso. La morte come “la grande amica” parafrasando Socrate.
Nello spettacolo Ginesio prega Dio di liberarlo dalla famiglia o di “muorirlo”…. La morte è la rinuncia ad una vita inutile, senza sogni… La sua richiesta è più diretta, radicale, se non può sognare o ambire a qualcosa allora è meglio che tutto finisca. Non sa neanche lui cosa “significhi” sognare, non ne ha gli strumenti. E’ un istinto di sopravvivenza.

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