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Il miracolo delle campane è un film un po’ particolare, di genere drammatico ma atipico nel suo sviluppo delle azioni, e pur essendo un prodotto propriamente hollywoodiano, ideato quindi sulla base di lunghe esperienze di mercato, non soddisfa del tutto le più comuni attese, mostrando sul piano della composizione narrativa una serie impressionante di lacune.
Il racconto è affastellato da effetti indesiderati, che fanno pensare ad una assenza di supervisione letteraria durante la fase del montaggio; manca infatti nella fase costruttiva della sintassi per immagini, la correzione delle spigolature più irritanti, quelle rilasciate dal primo accostamento tecnico delle singole scene.
Sembra quasi che il racconto a un certo punto sfugga di mano agli autori, finendo per assumere sembianze melodrammatiche non proprio volute, macchiate qua e là da una stridente pateticità.
Il film è stato valutato negativamente anche dalla grande critica cinematografica, che lo ha praticamente stroncato, con la motivazione che la narrazione non mantiene uno stile univoco, chiaro, lungo tutto il suo cammino, ma sfocia a un certo punto e senza mezzi termini su un terreno dalle forme impervie, scoscese, impraticabili, che portano il racconto ad assumere toni un po’ troppo severi, del tutto privi di ironia spezzettando lo stile in più parti e creando quindi intorno all’andamento drammatico principale una vera e propria commistione di sottogeneri.
Il film è un prodotto confezionato in USA, uscito nel 1948, con una pellicola in bianco e nero dai toni fotografici molto vivi, supportati da una buona luminosità, con dei contrasti che rasentano la perfezione.
Il film ha avuto un clamoroso fiasco anche al botteghino, nonostante la presenza di attori come Frank Sinatra, Fred MacMurray, e la regia del grande Irving Pichel che ricordiamo in film come La pericolosa partita (1932), Il grande silenzio(1944), L’ombra dell’altro (1945), e come attore in La figlia di dracula (1936), Torture ship (1939), L’agente K-7 (1939).
Per la bella dalmata Alida Valli, protagonista del film, è la seconda recitazione delle sue quattro hollywoodiane.
La pellicola è tratta da un romanzo di Russell Janey ed è stata sceneggiata da Ben Hecht e Quentin Reynolds, narra le vicende di una bella donna polacca di umili origini, Olga Treskovna, figlia di un minatore, che grazie al talento di un agente pubblicitario cinematografico di nome Bill Dunnigam (Fred MacMurray), suo appassionato corteggiatore, otterrà dopo una serie di peripezie la parte della protagonista in un film su Giovanna D’Arco, finanziato da un noto produttore hollywoodiano di nome Marcus Harris.
La donna è al suo primo film ma, a sorpresa, dopo l’abbandono del set da parte di una diva un po’ volubile, soddisfa pienamente le esigenze recitative manifestate dal regista e dal produttore, che ne apprezzano subito il grande talento.
Olga è malata di tubercolosi e subito dopo la fine delle riprese del film muore, costringendo il produttore a una scelta drastica, senz’altro discutibile, ma soprattutto ingrata, come può essere la sospensione del film dalla distribuzione per timore dell’insuccesso, ossia per paura che lo spettatore medio non riesca ad essere attratto a sufficienza dall’attrice protagonista del film perché del tutto sconosciuta e per giunta deceduta.
L’agente Dunnigam, che nel frattempo era riuscito a diventare anche l’amante della donna, fortemente rattristato dalla decisione del produttore, non si rassegna al proprio insuccesso, e mentre trasporta la salma di Olga al suo paese di origine, medita di compiere una clamorosa azione pubblicitaria proprio nel suo paese nativo, al fine di far recedere il produttore dal suo drastico provvedimento.
La strategia propagandistica del manager Dunnigam è molto audace, per certi aspetti geniale, ma molto invadente. Egli in onore di Olga intende far suonare le campane delle chiese del paesino di origine della donna e dei paesi vicini per tre lunghi giorni, pagando i parroci delle rispettive chiese con degli assegni a rischio, non del tutto coperti.
Dunnigam dopo varie peripezie e con grande acume relazionale riesce ad organizzare con successo l’impresa pubblicitaria che aveva in mente suscitando nella popolazione e nei media sdegno e interesse, curiosità e coinvolgimento.
Quando poi in chiesa, durante la cerimonia della messa per la defunta, si presenteranno strani eventi (le statue religiose della chiesa ruoteranno in direzione della bara) che faranno pensare al miracolo, non esiterà, d’accordo con il padre Paul (Frank Sinatra), a parlare pubblicamente di fenomeni sopranaturali di origine divina escludendo la reale causa del fenomeno dovuta a circostanze naturali del tutto fortuite.
La risonanza mediatica dei due eventi sarà enorme, coinvolgendo anche le prime pagine dei giornali. Il successo del manager Dunnigam sul produttore sarà totale, quest’ultimo sarà costretto a rivedere la decisione presa in un primo momento sul film e a distribuire la pellicola.
Il miracolo delle campane è un film che rispecchia a grandi linee una nota atmosfera spirituale americana del ’48, quella densa di nuove speranze di pace accompagnate nelle classi più comuni da miti un po’ legati al sogno americano, in una società che nonostante la ricchezza minacciava insicurezze di ogni genere, e si vedeva quindi costretta con i media ad esaltare l’amore tra uomo e donna quasi come fosse una risorsa sociale compensativa, in un mondo difficile da accettare così com’era per via delle innumerevoli ingiustizie sociali ed economiche.
Il film alimenta il sogno americano facendo credere che il successo individuale può giungere inaspettato, al di là delle proprie condizioni sociali ed esistenziali, grazie all’amore, alla sua spinta vitalistica che porta a progettare incessantemente forme di vita migliori facendo entrare i protagonisti in un paradiso emozionale di grande felicità e spensieratezza.
Tutto è permesso dalla società americana per raggiungere questo scopo, anche suonare per tre giorni le campane impegnandosi a pagare profumatamente i parroci.
La morte della protagonista sembra però indicare metaforicamente una imperfezione nel modello del sogno americano, una disuguaglianza di partenza nella corsa all’affermazione sociale, una difficoltà in più per le classi più disagiate a raggiungere certi obiettivi di status simbolico, quasi a dimostrazione di una loro ingenuità e sincerità nel muoversi nella durezza della vita che prima o poi finiscono per pagare a caro prezzo.
Il destino di Olga appare già segnato in partenza quando si saprà che la sua famiglia di umili origini non ha avuto i mezzi per farla studiare e il padre ammalato professionalmente per il tipo di lavoro morirà di tisi, il suo muoversi nel quotidiano della vita sarà allora caratterizzato sempre più dal chiedere qualcosa agli altri, ingenuamente, con l’onestà di scambiare professionalmente ed emotivamente qualcosa, di garantirlo quasi con l’impegno verbale e la dignità etica del povero.
La bellezza di Olga non è una avvenenza di tipo fatale, non ha il potere di incantare e far sognare negli uomini il raggiungimento di vette insperate di piacere intrecciato con il successo sociale, essa è disarmante, acquieta anziché inquietare, invita all’affetto piuttosto che all’erotismo, è vincente sul piano etico perché non chiede agli uomini comportamenti competitivi esasperati.
Per questo il fallito e un po’ truffaldino manager Dunnigam l’ama, perché sa che verrà accettato per quello che è, senza infingimenti, senza falsi pudori, unicamente per l’amore che gli dimostrerà, per la cura che metterà nel cercargli un lavoro che la donna sentiva come importante, a cui artisticamente credeva e che voleva conquistare esclusivamente con le sue capacità.
La dolce bellezza di Olga richiama a quello che non può essere presente nel sogno americano, a ciò che lo avvelena irrimediabilmente, a quella mediocrità professionale così frequente nelle strutture di successo mediatico che è frutto di una caduta del gusto medio pre-mediatico e di affari che si svolgono sempre più aldilà di ogni etica, in nome di un mercato malato di volgarità perché capace di condizionare con estrema facilità alcuni meccanismi dell’inconscio dei cittadini.
Olga è il dettaglio insignificante che genialmente Pichel ha colto per dare senso etico alla sua storia, mostrando criticamente l’altra faccia del sogno americano, quella composta dall’umiltà, dalla sofferenza, dal disagio sociale, che possono essere solo utilizzati dal cinema per fare provvisori affari, emozionando gli spettatori ma invitandoli a dimenticare in fretta certe condizioni precarie, mostrando con il contrasto di classe il fascino indiscutibile della bellezza borghese.
Tags: cinema, film, Il miracolo delle campane, recensione
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