Italia Reloaded: Ripartire con la cultura. Intervista a Christian Caliandro
È vero che “di cultura non si mangia”? Perchè in Italia si pensa ad essa solo come “patrimonio culturale” da salvaguardare?
Cosa “fa cultura” oggi?
Abbiamo deciso di chiederlo a Christian Caliandro, storico dell’arte contemporanea e studioso di Cultural Studies, autore assieme a Pier Luigi Sacco, professore di Economia della Cultura all’Università IULM di Milano, diItalia Reloaded: ripartire con la cultura.
Si, avete ragione, le domande sono molte, ma come vedrete tutto questo è essenziale per capire se e come Popsophia fa e può fare cultura.
Il rapporto Figel 2006 indicava un fatturato complessivo delle industrie culturali europee superiore alle industrie più produttive e persino doppio rispetto all’industria automobilistica. Inoltre mentre nel 2002-2004 l’occupazione totale europea diminuiva, quella del settore culturale aumentava dell’1,85%. Come è possibile dunque che in Italia, non si guardi alla cultura come generatrice di valore economico?
È possibile perché in Italia, soprattutto nel corso degli ultimi trent’anni, la cultura è stata considerata dai decisori come un orpello nella migliore delle ipotesi, e come uno spreco di risorse (sempre e comunque minime). Questo atteggiamento è il portato di una concezione della cultura e della produzione culturale votata all’autocelebrazione e alla retorica, invece che al superamento dei traumi collettivi ed alla crescita. Di una concezione che assegna alla cultura il compito di confermare il già noto e il già dato, invece di suggerire nuove risposte, temi diversi, altri punti di vista. Altrove – pensiamo per esempio ai Paesi del Nord Europa – la cultura è da tempo un fattore centrale e imprescindibile nella costruzione dell’identità collettiva, e come tale viene sostenuta e supportata. Ciò che lì è un dato acquisito anche in tempi di crisi durissima come quelli attuali, da noi è una conquista da posizionare nel presente e nel futuro.
In controtendenza alle critiche spesso mosse all’italiano medio, appaiono i dati relativi al rapporto annuale di Federculture (“La cultura serve al presente”) che pare descrivere in attivo l’andamento dei consumi culturali del Paese con un incremento dei festival culturali. Eppure nel vostro saggio fate riferimento all’italiano-zombie, culturalmente parlando.
La metafora dello zombie ci è servita per descrivere questo modello completamente passivo di fruizione culturale, del tutto fallimentare, che agli italiani è stato imposto negli ultimi decenni. Imposto, invertendo la relazione naturale tra domanda e offerta culturale studiata da Donald Sassoon in La cultura degli europei dal 1800 a oggi: è sempre l’offerta culturale a creare il proprio pubblico, e quindi la domanda. Oggetti e addirittura interi generi culturali sono nati in base a questo semplice principio. L’adozione distorta del principio dell’audience televisiva, invece, provoca i guasti e i fraintendimenti attuali (oltre alla reiterata comparsa della metafora della “cultura come petrolio”). L’evoluzione deifestival culturali, da questo punto di vista, è molto interessante. Negli ultimi anni, infatti, si può dire che essi siano diventati gli autentici spazi pubblici dell’Italia, i luoghi in cui avviene la discussione sui temi importanti della vita civile e intellettuale di un Paese; tutto ciò, inoltre, è avvenuto non casualmente in risposta all’erosione ed alla scomparsa dello spazio pubblico nelle sue sedi tradizionali e deputata.
In Italia Reloaded sollevate la questione della concezione diffusa della cultura non come production culture ma come patrimonio da salvaguardare. Come si coniuga la produzione culturale con la cura di un vasto patrimonio in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando?
I due elementi possono e devono essere condotti in parallelo. D’altra parte, ogniproduzioneculturale innovativa si nutre di uno sguardo attento e costante al passato, e la connessione fertile tra passato e futuro, tradizione e innovazione è uno dei tratti distintivi dell’italianità (pensiamo al Rinascimento, o al secondo Dopoguerra). Una condizione in cui, invece, siamo semplici spettatori – o peggio, “custodi” – del nostro passato, che a quel punto non riusciamo più neanche a sentire come autenticamente nostro, è un pericoloso vicolo cieco: in quel senso davvero la cultura diventa una tomba. La sfida di questo momento difficilissimo è proprio questa: se la crisi non è una momentanea sospensione, ma la trasformazione profonda dei paradigmi che regolano la vita individuale e collettiva, iniziare a costruire un sistema che trovi nella cultura e nella produzione culturale e creativa il suo nucleo vitale può essere una piattaforma utile e sensata per ricostruire il Paese.
Ma oggi cosa va promosso, cosa fa cultura? Più volte nel saggio fate riferimento al mondo pop. Il pop oggi, nella sua veste di serie tv, fiction, fumetto, musica, videogames, social network è cultura?
Assolutamente sì. Il pop è una cosa molto seria: è il modo in cui le idee strutturano e modellano l’immaginario collettivo, e da lì trasformano la realtà. Possiamo immaginare il pop come un gigantesco ‘dispositivo di traduzione’. L’Italia ha sempre faticato a trovare una sua dimensione pop – tranne che nella grande stagione della commedia cinematografica, tra anni Cinquanta e Settanta, con registi come Monicelli, Risi, Germi, Salce e attori come Gassman, Tognazzi, Manfredi, Villaggio – perché il nostro Paese ha un problema rilevante con le forme popolari della cultura, che non da oggi vengono considerate rigorosamente separate dalla cultura cosiddetta ‘alta’. Quando poi la cultura alta scompare, risucchiata dal mainstream nostrano – è il processo avvenuto negli ultimi trent’anni – le cose si complicano ulteriormente. Il pop rappresenta sicuramente una delle soluzioni a questa situazione.
Il filosofo Simone Regazzoni parla della filosofia come di un “Gioco mentale in forma di parole” dove il “pensiero in atto richiede forza, creatività e il coraggio di sperimentare, in assoluta libertà, l’inedito”.Sembra che queste siano le stesse cose che oggi si richiedono a chi fa cultura e a chi ne partecipa.
Sì. Un buon criterio per considerare un oggetto culturale può essere: ha modificato o sta modificando i miei punti di riferimento, il modo in cui guardo il mondo? La funzione della cultura è infatti quella di addestrarci a modi di pensare per noi inediti, nuove prospettive sulla realtà. La cultura è la palestra dell’innovazione, e questa palestra serve a tutti i territori dell’attività umana. Sono idee antichissime, ma che oggi chiaramente trovano nuova linfa in dispositivi che favoriscono sempre di più la fusione tra la figura del produttore e quella del fruitore. L’importante è, però, evitare con accuratezza le trappole retoriche del conformismo e della finta democratizzazione delle pratiche culturali.
Rispondere oggi in maniera proattiva in termini culturali, corrisponde ad una riformulazione del concetto stesso di cultura? Magari iniziando col cambiare alcune scelte linguistiche che la intrappolano in forme tombali; mi riferisco alle parole salvaguardia e patrimonio legate all’arte o alla lotta condotta dal Professor Quirino Principe per far sì che l’aggettivo stantio “classica” non mortifichi più la “musica forte”.
Sicuramente il lavoro linguistico è e sarà molto utile. L’uso delle parole rivela infatti l’interpretazione dei concetti, e questa interpretazione è inevitabilmente una deformazione. L’esempio della “musica classica” è particolarmente calzante: perché continuiamo a chiamarla classica? Se il criterio è solo quello della distanza temporale, allora dovremmo cominciare a creare etichette apposite anche, per esempio, per il rock degli anni Cinquanta e Sessanta, e così via. Il desiderio di creare caselle apposite per le produzioni culturali non è affatto nuovo, e oscura regolarmente il loro potenziale effettivo e anche, in definitiva, la loro potenza. Occorre dunque lavorare molto e in profondità sull’accesso alla cultura e alle forme culturali, lavorando costantemente sul legame tra presente e passato, tra contemporaneità e tradizioni, senza cedere alle facili spettacolarizzazioni e semplificazioni.
Tornando al modello festival, quando possiamo dire che esso produce cultura nel legame che ha con il territorio?
Un festival sta producendo cultura quando riesce ad aprire in maniera felice e produttiva il territorio al mondo esterno, senza snaturarlo. Un festival produce cultura quando la comunità che lo ospita lo considera parte integrante ed irrinunciabile della sua esistenza. Un festival produce cultura quando i suoi effetti si riverberano molto al di là dei confini temporali del suo effettivo svolgimento.
Nell’ultimo capitolo c’è un riferimento a Nietzsche per quel che concerne la giusta appartenenza dell’uomo al suo tempo. Chi è il contemporaneo?
Nelle Considerazioni inattuali (1876), Nietzsche chiarisce come la vera contemporaneità risieda in una sorta di scarto, in una sfasatura rispetto al tempo presente. Un osservatore o una produzione culturale che coincide perfettamente con il proprio tempo appartiene al territorio della moda. Una sottile ma ostinata inattualità, invece, ci consente di percepire la nostra epoca in maniera efficace. La produzione culturale e creativa, dunque, invece di seguire pedissequamente i supposti gusti del pubblico (che nella realtà non esistono, e sono un’illusione autogenerata: un oggetto culturale nuovo crea un gusto e un pubblico, per il semplice fatto che prima non esistevano e non potevano esistere…) può coltivare questo scarto, esplorando territori nuovi e riconfigurando le esperienze acquisite. In ciò risiede il piacere del ‘disturbo culturale’, ed è quello che in molti casi è avvenuto e avviene, con risultati sorprendenti per le comunità che si sono impegnate in questo gioco serissimo.