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Nella festa (che qualcuno definirebbe un cronotopo, una specie di isola spaziotemporale) il “normale” corso del tempo viene bloccato, sospeso, alterato e si aprono tempi e spazi nuovi, sconosciuti, sorprendenti: si evade dalla cronologia e si riesce persino a viaggiare, anche da fermi. La festa – come la musica, anzi grazie alla musica – può diventare essa stessa un viaggio, un vagabondaggio infinito fra cose, persone e sentimenti.
Proprio come avviene in questo caso: e infatti il restare e l’andare, le radici e la viandanza sono – fin dal titolo del lavoro e naturalmente nella title track, che è un vero inno programmatico, di grande forza evocativa – temi e immagini ricorrenti in questa festa (portatile) a cui Epifani ci ha invitati.
Per di più, non è una festa qualsiasi: a guardar bene, si tratta di un vero e proprio carnevale di suoni, voci e ritmi, di una sfilata di allegorie musicali nelle quali l’anima della civiltà contadina e le tradizioni – popolari e colte – del Sud d’Italia vengono rilette in una chiave attuale e creativa, “piùchemediterranea” e di respiro internazionale.
Nel carnevale, si sa, trionfano il travestimento, la parodia e l’ironia; bisogna saper prendere le distanze da sé e farsi altro (anche questo è un modo di viaggiare): solo così il giogo dell’identità diventa un gioco, libero, sorridente. Ecco perché Epifani effettua anzitutto un trattamento ironico, quasi parodico, dei materiali di una tradizione popolare diventata “luogo comune”, li desacralizza e, in qualche modo, li profana; così, facendosi beffe di un’autenticità pietrificata, paradossalmente la trasforma in un oggetto vivo e proprio in questo modo la realizza, cioè la rende reale, attuale, pulsante.
Nel quasi-rap di “Mosse mosse mosse”, nella quasi-ortodossa “Pizzica mbriaca” e in “That’s tarantella” (tre potenziali singoli tutti da ballare) avviene tutto questo ed Epifani può definire con precisione il suo approccio: la sua è una “versione scorretta di una musica maledetta”, qui si offre un menu tanto sgangherato quanto gustoso, come si canta, anzi si dice, in mezzo ai suoni e ai ritmi dell’autoironica “That’s tarantella”.
Questo stesso gioco, poi, si fa tanto più coraggioso e irriverente quanto contagioso e trascinante negli altri brani dell’album. E così la pizzica, la taranta, le tammurriate, la scuola napoletana del ‘700 si “mettono in maschera” e si travestono, incontrandosi, misurandosi e mescolandosi con tanti altri Sud, reali-immaginari-fantastici: il forrò, il fado e il klezmer di “Scaminante” e “A nott”, le venature balcaniche (quasi un omaggio all’etnoprog degli Area di Demetrio Stratos) e afro (addirittura pseudo-soukous) della bucolica “Pasquella”, gli echi country-raga di “Imu venuti”, addirittura il bhangra di “Core core” con cui si chiude l’album.
Prima, però, ci sono ancora spazio e tempo per una ballata struggente e poetica, l’elegia di “Naufrago”, che trasforma un’assenza in presenza e riporta al centro del discorso l’andare e il tornare, la nostalgia, il viaggio incerto e l’approdo sognato.
Così, alla fine, non si può non pensare alle parole con cui Gianni Celati conclude le sue Quattro novelle sulle apparenze:“[…] per andare dove? Dove? Ma chi può dirlo dove un uomo sta andando? Spesso si crede di saperlo, ma è un errore. Tutto quello che si sa è che bisogna continuare, continuare, continuare come pellegrini nel mondo, fino al risveglio, se il risveglio verrà”.
Ecco: “Pe’ i ndò”, “per andare dove” – la festa, il viaggio, l’inno e l’elegia, le maschere, l’ironia, il tempo strano, il qui e l’altrove, le tarantelle senza tarantella – è davvero un risveglio per la musica popolare di questo paese assonnato.
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