Necessità di una alfabetizzazione informatica per tutti i cittadini
Una cultura informatica di base alla portata di tutti, perché il personal computer diventi in ogni famiglia un elettrodomestico “normale”, come la televisione e il frigorifero. Soltanto così sarà possibile che ogni cittadino abbia accesso alla società dell’informazione, per evitare un nuovo analfabetismo, questa volta digitale. Bisogna cominciare dalla scuola materna. I bambini devono imparare a interagire con monitor, mouse e tastiera, giocare con il PC per apprendere a padroneggiarlo. “Educare alla rete, scrivono Francesco Bollorino e Andrea Rubini,12 non vuoi dire soltanto `aggiungere Internet’ agli strumenti di ricerca o formazione disponibili, vuoi dire soprattutto insegnare nuovi modelli di organizzazione e aggregazione sociale e operativa, nuove forme di comunicazione con cui le persone dovranno fare i conti nel momento in cui si affacceranno al mondo del lavoro”. Finora il mondo dell’informazione ha trattato questo argomento come un “corpo separato”. Di Internet si parla quasi esclusivamente per denunciare i pericoli che si annidano nella rete, oppure per citare l’ultimo sondaggio sui giovani e le chat. Insomma, un approccio superficiale e sensazionalista che non aiuta la causa della nuova alfabetizzazione. Rare eccezioni in questo quadro desolante sono alcune iniziative della Rai, e pochi programmi televisivi (e portali Web)
Un cittadino informato è meglio governato
“Government of the people, by the people, for the people.” Nel discorso del presidente americano Abramo Lincoln a Gettysburg, nel 1863, è riassunta l’idea della democrazia ed è anticipata allo stesso tempo la formula della futura e, al momento ancora teorica, cittadinanza digitale. Promuovere la partecipazione del popolo, del cittadino in una democrazia occidentale. Grazie al Governo interattivo, infatti, il cittadino potrà partecipare agli affari politici a livello locale, regionale, nazionale e persino internazionale. Potrà entrare facilmente in contatto con i responsabili politici in ogni livello, spedire un messaggio diretto al presidente George W. Bush ([email protected]) o al presidente russo Vladimir Putin ([email protected]), con la speranza di ricevere una risposta, sia pure scritta da un funzionario del cerimoniale. Non abbiamo trovato, invece, sui siti ufficiali dell’Unione Europea o del Governo italiano (almeno fino ad oggi), gli indirizzi e-mail dei nostri presidenti del Consiglio o della Camera e Senato.. Comunque, per la prima volta, il cittadino può avere un’influenza diretta sulla condotta degli affari internazionali, se si vuole credere a Marshall Mac Luhan. Il suo “villaggio globale” si realizza grazie ai nuovi strumenti della comunicazione e riesce a superare le frontiere nazionali e le gerarchie tradizionali, con l’aiuto del facile linguaggio comune del cyberspazio, il cosiddetto cyberenglish. Utopia? Ce n’è senz’altro una buona dose, miscelata a molto ottimismo. Come abbiamo visto con l’esempio banale degli indirizzi e-mail, le resistenze culturali sono difficili da superare, ma c’è anche da rilevare che in pochi anni sono stati fatti passi da gigante. Gli scettici sono turbati dalla crescita senza regole, un po’ anarchica, della società dell’informazione. Per loro ogni promessa di democratizzazione è falsa, frutto della propaganda delle multinazionali del settore. E Poi, quale accesso è mai possibile per i tanti sud del mondo, se è vero, come dice.Jeremy Rifkin’ nel suo libro “L’era dell’accesso”, che più della metà della popolazione mondiale non ha mai usato il telefono? Il confronto tra scettici e ottimisti, tutti con buone argomentazioni, è ancora in corso e probabilmente non finirà mai. La terza via è dei pragmatici. Il modello di riforma perfetta non è mai stato inventato, e tutte le soluzioni finora prospettate hanno sempre avuto effetti secondari.
Allora è meglio rimboccarsi le maniche e cominciare dal basso, dal più piccolo nucleo sociale, la famiglia, l’ufficio, l’azienda, la fabbrica. I ragazzi aiutino genitori e nonni a capire a cosa serve un computer e cosa è possibile trovare su Internet; chi ha più esperienza diventi tutor dei compagni di lavoro. Insomma è necessario far crescere la domanda di educazione e formazione alle nuove tecnologie, perché si possa arrivare all’offerta, da parte della scuola, delle aziende, delle istituzioni. Molti mestieri scompariranno, altri ne verranno. E sempre stato così e nulla fa pensare che non debba accadere lo stesso in futuro. Il problema è attrezzarsi. Formazione, autoformazione, tutto va bene. Lo scenario internazionale attesta purtroppo che i problemi ereditati delle società coloniali, industriali e postindustriali sembrano perpetuarsi nella nuova era digitale. Con Internet, le nuove frontiere della società dell’informazione non saranno più statali ma tecnologiche. Digital divide, divario digitale, si dice oggi. La grande maggioranza dei paesi del “Terzo Mondo” non ha infrastrutture, sistemi di formazione, tradizioni sociali favorevoli all’introduzione massiccia delle tecnologie informatiche e dunque occorrerà qualcosa di più di un passaporto o di un visto per attraversare le frontiere virtuali. Insomma, a meno di interventi massicci dei paesi ricchi, il
‘ Jeremy Rifkin, economista e filosofo americano, è presidente della Foundation on Economic Trends a Washington (USA), e della Greenhouse Crisis Foundation. Studia da molti anni l’influenza dell’evoluzione tecnologica e scientifica sull’economia, sul lavoro, sull’ambiente e sulla società dei paesi del sud del mondo perderà sia la partita della società dell’informazione che quella della globalizzazione. Meno drammatico, ma pur sempre problematico, il divario digitale tra i tanti sud e il nord del mondo sviluppato. Dove i poteri pubblici non interverranno per promuovere una diffusione capillare delle infra-strutture tecnologiche, il diritto di tutti all’accesso, andranno ad acuirsi i problemi sociali, a discapito della democrazia.
Un cittadino informato è meglio governato. Internet può rispondere a questa esigenza, mettersi al servizio della complessa macchina dello Stato per riformarlo profondamente, render-lo più efficiente, più vicino alle esigenze della popolazione. Dal settore pubblico, grazie alle tecnologie, ci si aspetta la stessa qualità di servizi offerta dal settore privato. Alla base deve esserci maggiore trasparenza delle informazioni, delle procedure e delle decisioni. Trasparenza significa meno corruzione e più fiducia nelle istituzioni. Il cittadino partecipa alle scelte di governo, grazie alla consultazione e all’accesso alle informazioni, prima custodite nei vari “palazzi”. Non si tratta soltanto di automatizzare, digitalizzare i processi produttivi, né di aprire pagine Web di facciata. La fase pionieristica di Internet è finita anche per la Pubblica Amministrazione. Adesso bisogna pensare ai contenuti, sia dal punto di vista dell’organizzazione interna, sia nei metodi per interfacciarsi con il pubblico. All’interno della macchina istituzionale è necessario imparare come distribuire e condividere le informazioni, come gestire decisioni e ruoli gerarchici, come adattare la legislazione – spesso farraginosa e contraddittoria – alla rapidità e al pragmatismo del mezzo. Attualmente – scrive il prof. Guido M. Rey, presidente dell’Autorità per l’informatica nella Pubblica Amministrazione – resta carente il controllo democratico, ossia il controllo puntuale esercitato dal cittadino, una carenza che un tempo era giustificata dall’assenza di informazioni e dall’ignoranza del suddito; entrambe queste condizioni si stanno modificando e in particolare le informazioni possono e debbono essere messe a