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L’epatite C

Il perfezionamento dei test sierologici volti a diagnosticare l’agente eziologico delle varie forme di epatite virale ha permesso recentemente di stabilire che una certa percentuale dei casi di epatite definita «da siero» non è in realtà ascrivibile con sicurezza né al tipo A né al tipo B.
Questi casi dubbi non rappresentano l’eccezione, ma hanno una incidenza epidemiologica piuttosto pesante: possono infatti essere classificati tali circa il 50% dei casi di epatite da siero diagnosticati negli Stati Uniti d’America. L’agente eziologico di questo nuovo tipo di epatite che causa la malattia non è stato ancora identificato, né tantomeno isolato e coltivato: esso è indicato, per esclusione, come virus non-A non-B, e l’epatite da esso provocata viene definita tipo C. In realtà, alla categoria dei virus epatitici non-A non-B sembrano potersi ascrivere almeno due tipi differenti di virus. Lo sviluppo di test sierologici a maggiore risoluzione e specificità chiarirà in futuro la posizione tassonomica di questi agenti infettivi. Nessun test diagnostico di routine è stato ancora messo a punto, anche se con tecniche di immunofluorescenza è possibile eseguire una diagnosi differenziale. Dal punto di vista epidemiologico e clinico, l’epatite C è quasi sovrapponibile a quella di tipo B (epatite da siero). Il contagio avviene quasi sempre per via parenterale, per l’uso di siringhe o strumenti chirurgici non ben sterilizzati; talvolta è sufficiente l’uso di uno spazzolino da denti utilizzato da un epatitico per contrarre la malattia. La nota saliente che contraddistingue l’epatite di tipo C è la durata della sua incubazione, che è di 2-3 mesi: nettamente inferiore ai 5-6 mesi della B e superiore ai 10-15 giorni della A. L’epatite C si trova quindi in una posizione intermedia.
Si sa ancora molto poco sulla risposta anticorpale messa in atto dall’organismo per difendersi contro l’epatite di tipo C. Gli anticorpi anti-A e anti-B sembrano avere scarso potere immunitario nei confronti dei virus non-A non-B.

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